venerdì 31 luglio 2015

Fame di vita

Scruzzusu, scalzi, noi camminavamo scalzi, e non c'era la strada come adesso, asfaltata, c'era la terra battuta e ghiaia, e correvamo tutto il giorno su e giù da Ingurtosu al campo dove c'era mamma a lavorare per prendere i prodotti dell'orto e portare l'acqua a quelli che lavoravano. Avevamo un paio di pantaloni corti e larghi, sia in estate che in inverno, nonna ce li faceva con le coperte vecchie, con solo una bretella sulla spalla, senza mutande, cosicché quando giocavamo a biglie, sai cosa sono le biglie, vero? Mentre giocavamo ci scendevano i genitali e se volevi fare uno scherzo a qualcuno, prendevi la mira e tiravi la biglia nel suo pisello. Eravamo tutti ragazzini così ma ci divertivamo tanto, ci divertivamo senza fare male a nessuno, non tanto almeno, ci piaceva fare scherzi e tutti avevamo un soprannome. Si usavano molto i soprannomi, il mio era Gnassiu...
Giocavamo con i bottoni a "crastusu e cruxidi"(testa o croce), per giocare staccavamo i bottoni dalle mutande di babbo, babbo non trovava mai i bottoni per chiudersi le mutande, oppure giocavamo con i centesimi di lira a "muru" (muro) e se usciva crastusu che era la parte liscia, vincevi.
In piazza con gli altri bambini giocavamo a "pei in caneddu" (saltare con un piede solo) oppure a su giogu de su sedazzeddu; sai il setaccio che serviva a togliere le impurie dalla farina, o a cassa cassa; nascondino e a zacc'e poni, quel gioco in cui uno di noi dava un colpo a uno girato di spalle che poi doveva indovinare. Quando giocavamo con il cerchio, che tenevamo in piedi con un pezzo di filo di ferro, dovevamo stare attenti a non farlo passare sulle pietre altrimenti ci rimbalzava in faccia, era un cerchio di metallo, quello che tiene insieme le botti.
 Abitando in zona mineraria avevamo i piedi sempre neri, la terra era ricca di minerali. quando dovevo lavare i pavimenti dovevo cambiare l'acqua tre o quattro volte e quei mattoni non diventavano mai rossi come voleva mamma.  Naturalmente non c'era il lavandino a casa, bisognava arrivare alla fonte a prendere l'acqua.
Avevamo un cagnolino che si chiamava Ciuccetta, ogni tanto spariva e non lo trovavamo mai più, allora ne prendevamo un altro, maschio o femmina, non importava, lo chiamavamo comunque Ciuccetta perché mamma aveva deciso così.
 
Quando mamma ci dava la minestra controllavamo che le parti fossero tutte uguali, guardavamo il bordo dei piatti, se uno di noi bambini ne aveva di più attaccavamo a prangi, a piangere, c'era sempre qualcuno che piangeva, arrori, pitticca sa fami!
A volte andavamo nei pollai a rubare le uova, facevamo due buchetti con un chiodo e ne bevevamo l'interno, poi le rimettevamo a posto, quando le trovava sa tzia diceva che le sue galline si stavano ammalando, facevano le uova vuote.
Quando mamma apriva la forma di formaggio ne tagliava un pezzo a ciascuno da mangiare con il pane, misurato anche quello e cercavamo di mangiarlo piano per farlo durare di più, Arrori, arrazze' sabori. Quando tutti avevano il loro pezzo di formaggio mamma faceva un segno con il coltello sulla crosta, una specie di disegno per accorgersi se veniva tagliato ancora e lo riponeva nella credenza.
Noi, naturalmente, andavamo di nascosto a prenderne altro e poi si rifaceva il segno e lei non se ne accorgeva.
Siccome io ero a casa e zia Rosanna e zio Pinuccio erano troppo piccoli, mamma mandava sempre me a prendere il latte nella latteria della vedova di un operaio di miniera, con un cestino e le bottiglie, e io avevo nascosta in strada una cannuccia trierbe, il latte che mi dava era ancora caldo e faceva la panna, io la succhiavo con la cannuccia, ta cosa bella chi fiàda.
Riuscivo a succhiarla due o tre volte, era così grasso che si riformava, e prima di arrivare a casa rabboccavo le bottiglie alla fontana dell'acqua, poi mamma vedeva il latte così chiaro e brontolava contro la vedova, dandole dell'imbrogliona, chè secondo lei "allungava" il latte. Nonostante fossi bello grasso non immaginava che potessi essere io il colpevole.

Io dormivo nel letto con tre dei miei fratelli, e di notte non ci si poteva muovere troppo, altrimenti le doghe del letto si spostavano, il materasso di crine si appallottolava e diventava scomodissimo.

Quando andavamo al mare, ci caricavano tutti sul carro a buoi, facevamo quella strada lunga lunga tutta la notte e un giorno, gli uomini cantavano e suonavano organetto e chitarra intanto che camminavano e noi bambini dormivamo uno sopra l'altro. Appena arrivati al mare, dopo un giorno e una notte di viaggio, dovevamo costruire la capanna per dormire, il letto per mamma e babbo,  poi mettevamo un po' di cannette per terra e noi dormivano lì. Stavamo un mese al mare, portavamo coperte, materassi e ci divertivamo tanto. A Portixeddu o a Buggerru c'era qualche botteghina e qualcuno andava a piedi a comprare qualcosa che mancava, ma non mancava niente, avevamo pane per tutto il tempo. Si andava a pescare e si arrostiva il pesce in spiaggia, c'era sempre un profumo di pesce arrosto, ta bonu chi fiada...  

Nelle miniere eravamo evoluti, quando ancora in molti paesi non c'era l'elettricità, "genti 'e miniera genti'e galera, si diceva, perché c'era gente che veniva da ogni parte d'Italia, gente d'ogni tipo.
Alla sera si ritrovavano nel dopolavoro dei minatori, sciadausu, facevano a gara dopo gli spaghetti a chi mangiava più uova fritte degli altri, perché il giorno dopo sarebbero tornati giù a partire dal primo livello a 200 m fino al punto più basso di 500 m e chissà se sarebbero riusciti a risalire. C'era anche un ascensore laterale, lo chiamavamo  schippi, molto pericoloso, era facile cadere e non essere più ritrovati. Alla sera si giocavano i soldi della paga, quando andavano a ritirare la busta, per prima cosa dovevano pagare i debiti di gioco, allora le mogli si erano arrabbiate, erano andate tutte insieme dal ragioniere della miniera, gli avevano fatto promettere che la busta paga l'avrebbe data agli uomini solo se accompagnati da loro stesse. Allora da quel giorno giocavano a gianduiotti, come erano buoni, li hai conosciuti? Avevano un sapore aicci drucci! Dolcissimi! 
Un giorno i ragazzi mi avevano portato ad un ingresso laterale, era più basso di me, pensa, mi sarei dovuto chinare e per sfida mi avevano detto di entrare, ma io avevo proprio paura, ogni giorno si sapeva di qualche frana e di qualche operaio che non vedeva più la luce del sole.
In paese c'era già il cinema e a volte facevano commedie e spettacoli dal vivo; per annunciarli passava con la sua trombetta "su gridadori", un po' suonava e un po' gridava e i ragazzini del paese lo accompagnavano con sonore pernacchie.
Presentava gli spettacoli in sardo e film americani sbagliando la pronuncia dei nomi degli attori stranieri. I protagonisti diventavano persone di facili costumi, da Tyrone Power a "tiraddu e poni", da Rita Hayworth a "Rita Egua", ascoltare le sue grida era già uno spettacolo.

A 19 anni partii a Genova per aggiornare il mestiere con una valigia con i miei abiti semplici ma ben due cappelli. Andai a pensione da mio cugino Mariano che era sposato con Barina a cui davo tutto lo stipendio per dormire e per mangiare ma non mi piaceva perché faceva sempre la minestra di patate, allora facevo gli straordinari per guadagnare di più e procurarmi roba da mangiare, da leggere, uscire con le ragazze. Dopo poco tempo diventai capo operaio, eravamo in otto, era un negozio di scarpe grandissimo e il proprietario aveva fatto un soppalco per metterci la calzoleria, il soffitto era così basso che un tipo arrivava a sfiorarlo con la testa, c'era anche una piccola finestra che non si poteva aprire tutta, ti arrori su fragu de gussu logu!

Tornato in paese aprii subito una calzoleria moderna; con tutti gli strumenti più avanzati, avevo l'incarico di fare le scarpe per tutti gli operai della miniera, gliene spettava un paio all'anno e poi le aggiustavo naturalmente. Avevo tanto lavoro e avevo dovuto prendere dei ragazzi ad aiutarmi, più giovani di me, che volevano imparare il mestiere.
Io ero scapolo e mi facevo da mangiare, pulivo, tutto io facevo, per non lavare la pentola ogni giorno cucinavo le pietanze una dopo l'altra così che il minestrone aveva sapore di pasta col sugo e così via. Quando cucinavo i ragazzi sentivano il profumo e avevano preso l'abitudine di mangiare con me, facevo certi sughetti! Mettevo una scatoletta di Simmenthal nel sugo di pomodoro, si scioglieva la gelatina e dava un sapore alla pasta, Gesù Cristu miu, ta cosa bella!
 I ragazzi dovevano lavare i piatti, erano tre: scrivevo il loro nome su un foglietto e si tirava a sorte ma dopo un po' cominciai a scrivere sempre lo stesso nome e quindi toccava sempre ad uno ma siccome qussu fiada unu pagu tontu, sciadau, non pensò mai di controllare gli altri foglietti.
 

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